
LGBTQIA+ e Pride, tra orgoglio e pregiudizio
L’onda Pride è tornata a travolgere le strade d’Italia: da giugno fino all’autunno, la parata attraverserà tutta la Penisola, nelle grandi metropoli così come nei piccoli paesi di provincia. Sabato, Roma e Milano hanno accolto migliaia di partecipanti, mentre ieri è stata la Toscana a tingersi dei colori dell’arcobaleno.
Nonostante sempre più realtà aderiscano e partecipino alla manifestazione, nell’opinione pubblica circola ancora una buona dose di dissenso. E ad inasprire le tensioni, quest’anno, ci si è messo pure il D.D.L. Zan: finalmente calendarizzato al Senato, il decreto propone l’integrazione al reato di Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa i moventi di genere, sesso, orientamento sessuale, identità di genere e abilismo; eppure c’è chi sostiene che procedere in questa direzioni significhi limitare la libertà di pensiero e di parola.
Le ragioni degli oppositori sono lo specchio di una cultura eterosessista e bigotta, che considera l’espressione della propria identità di genere e/o sessuale un’ostentazione di cattivo gusto, e la rivendicazione sociale di tale identità un pericolo pubblico. Per questo, in occasione della Giornata Mondiale dell’orgoglio LGBTQIA+, vogliamo dire la nostra sul perché è importante parlare di Pride, diritti e discriminazione, e farlo con cognizione di causa.


Le origini e gli obiettivi della manifestazione
Nella notte tra il 27 e il 28 giugno del 1969, in un distretto di Manhattan, la polizia irrompe nel bar gay Stonewall Inn e arresta alcuni dei presenti, perché vestiti con abiti del sesso opposto o sprovvisti di documenti. Nulla di nuovo, per la comunità arcobaleno di New York, che tuttavia decide di rispondere a tono e organizzare una protesta destinata a passare alla storia come moti di Stonewall. L'anno dopo nasce il Gay Pride (oggi semplicemente Pride o LGBTQIA+ Pride), in ricordo di quell’evento e con l’obiettivo di denunciare apertamente i soprusi e le discriminazioni ai danni delle persone omosessuali, bisessuali e transessuali.
Le cronache di quelle giornate citano spesso l’aneddoto secondo cui le due sex workers transgender Sylvia Rivera e Marsha P Johnson avrebbero aperto lo scontro con la polizia. Ma oltre la leggenda, c’è una verità inabissata: come racconta il Time, sebbene le sex workers transgender — ed in particolare le sex workers transgender nere — siano state le prime vere attiviste dell’emancipazione LGBTQIA+, il loro fondamentale contributo è caduto nell’oblio. Persino per la comunità Gay, infatti, la prostituzione e la disforia di genere rappresentavano la quintessenza della non conformità sociale, a testimonianza del fatto che la discriminazione, purtroppo, è trasversale, e anche le sue vittime possono diventarne complici.
Il ritratto dell’omobitransfobia in Italia
Chi sostiene che il tema della discriminazione sessuale e di genere non sia una priorità nell’agenda politica farebbe bene a leggere un paio di dati: nonostante le campagne di sensibilizzazione e l’abbattimento di molti tabù, l'omobitransfobia è ancora nel trend. La pandemia e i lunghi mesi di lockdown hanno inciso sui luoghi della discriminazione, determinando un aumento degli episodi di violenza (fisica o verbale) domestica — si è passati dal 15% al 18% — e sul web: fra messaggi privati, post, commenti diffamatori e veri e propri episodi di stalking informatico, la discriminazione digitale ha raggiunto, quest’anno, la soglia critica del 20%.
Sorprende, tuttavia, che la percentuale più alta sia ancora quella delle vittime di violenza in strada e nei luoghi di ritrovo (bar, ristoranti, locali), attestate al 44%: questo dato denuncia la forte presenza di un’aggressività repressa, latente, sempre pronta ad esplodere non appena se ne presenta l’occasione. Stesso discorso per le discriminazioni sul posto di lavoro e a scuola, la cui percentuale è rimasta per lo più invariata, nonostante l’incremento dello smart working e della didattica a distanza. Una possibile spiegazione — anche se forse un po’ ottimistica — è che sempre più vittime decidano di denunciare, indipendentemente dalla percezione della gravità del danno subìto; tanto più che il numero di denunce per aggressioni non fisiche ha, per la prima volta, superato la maggioranza (59%).
Infine, qualche dato anagrafico: l’omosessualità maschile è più discriminata di quella femminile (72% contro 18%) — anche se quest’ultima è spesso soggetta alla tipica arroganza maschiocentrica da “si vede che non hai trovato l’uomo giusto” — mentre la fascia d’età più colpita è quella dei 21-30 anni, seguita dai 31-40.
Ogni anno, in Italia, si registrano circa 190 vittime di omobitransfobia: i numeri sono di per sé allarmanti, ma a preoccupare è soprattutto la consapevolezza che i dati di cui disponiamo sono solo la punta dell’iceberg.

1 Il progetto Cronache di ordinaria Omofobia nasce su iniziativa di Arcigay, con l’obiettivo di stilare un rapporto destinato al Ministero degli Affari Sociali sugli episodi di discriminazione omofoba, bifobica e transfobica in Italia. Dal 2012 al 2020 sono stati censiti 876 episodi di discriminazione, per un totale di 1166 vittime, ma l’elenco è in continuo aggiornamento. Le discriminazioni in questione comprendono aggressioni personali, aggressione di coppia o di gruppo, omicidio, suicidio indotto, tentato suicidio, atti discriminatori non fisici.

L’intersezionalità: la voce del privilegio
L’intersezionalità, nelle parole di Kimberlé Crenshaw — l'attivista, giurista e docente americana che per prima ha proposto il termine — è un crocevia di strade diverse, ciascuna delle quali corrisponde a una possibile causa di discriminazione: il genere, l’etnia, l’orientamento sessuale, l’orientamento religioso, l’abilità fisica, l’età. Quando su un solo individuo convergono più strade, la discriminazione si fa più forte e le sue conseguenze più estreme.
Il primo ambito di esplorazione della teoria è stato il femminismo: secondo Crenshaw, infatti, una donna afroamericana è discriminata due volte, in quanto donna e in quanto nera. Ma l’idea di fondo è che le varie identità sociali siano sovrapponibili, e che ogni intersezione meriti un discorso a sé. La comunità LGBTQIA+ è intrinsecamente eterogenea e complessa e, come ci insegna la storia di Stonewall, anche al suo interno si riscontrano profonde disuguaglianze. Sovrapporre, ad esempio, la non conformità dell’identità di genere o dell’orientamento sessuale alla diversità etnica significa andare incontro, con quasi assoluta certezza, a discriminazioni multiple.
Per aspirare a un’effettiva parità di diritti, all’emancipazione e all’inclusione delle categorie discriminate, non si può prescindere da un’analisi trasversale e comparata di tutte le casistiche. Al momento, tali iniziative sono per lo più portate avanti da associazioni LGBTQIA+, cooperative sociali, centri per l’immigrazione, centri antiviolenza; di rado, come abbiamo visto, queste tematiche giungono alle porte di Montecitorio e, quando ci provano, incontrano l’opposizione dei primi due partiti in Italia. Nell’attesa che le istituzioni mettano in atto politiche realmente inclusive, ciascuno di noi può dare il suo contributo: il cambiamento parte sempre dal basso, specialmente nell’era dei mass media.
La prima cosa da fare è prendere consapevolezza dei propri privilegi e cercare di renderli socialmente utili. In un Paese in cui razzismo, sessismo, misoginia e omobitransfobia sono all’ordine del giorno, una persona bianca, etero e cisgender ha il potere di intercedere per coloro che non hanno voce in capitolo. Ecco perché è fondamentale parlare di diritti civili, comunità LGBTQIA+ e Pride, contrastare l’odio e la violenza sui social, prendere apertamente posizione nel dibattito e, infine, adoperare al meglio il lessico dell’inclusività.
Le parole sono importanti
Come scrive David Foster Wallace nel saggio Autorità e uso della lingua, le convenzioni linguistiche hanno sempre a che fare con la politica, ma in due possibili modi: la lingua può riflettere un cambiamento politico già avvenuto o in atto, oppure diventare lo strumento di quel cambiamento. In parole povere, la lingua descrive, certo, la realtà, ma allo stesso tempo la modifica. Di conseguenza, capire e usare correttamente il lessico LGBTQIA+ significa contribuire attivamente al progresso.
“...capire e usare correttamente il lessico LGBTQIA+ significa contribuire attivamente al progresso”.

Facciamo un po’ di chiarezza:
LGBTQIA+ è l’acronimo di:
Queste parole non sono solo etichette, vezzi, espedienti per turbare il quieto vivere di chi è cresciuto a pane e manicheismo: sono lo strumento attraverso cui sempre più persone possono interfacciarsi con il mondo senza passare dall’approssimazione di se stesse.

Cos’è per te il Pride?
Come l’arcobaleno che ne è il simbolo, il Pride ha mille colori, mille significati: alla domanda “cos’è per te il Pride?”, non c’è una sola risposta. Il Pride è l’occasione per far festa e lasciarsi travolgere da un’atmosfera briosa ed esuberante; è la celebrazione della libertà e del rispetto dell’altro; è una scelta di coraggio, il momento giusto per affermare la propria identità senza vergogna; è liberazione, catarsi, commozione profonda che scaturisce dal senso di appartenenza ad una comunità accogliente, che sa di casa; è una marcia collettiva verso il progresso e l’uguaglianza.
Il Pride è il luogo in cui la rabbia e l’indignazione si sublimano nell’orgoglio di essere semplicemente se stessi.
2 Il termine, che letteralmente significa “strano”, “eccentrico”, è stato dapprima utilizzato come insulto nei confronti delle persone con identità non etero-cis, per poi essere rivendicato con fierezza da tutti coloro la cui identità mette in discussione le norme di genere e sessualità.
3 Presentano caratteristiche fisiche, ormonali o genetiche non aderenti alle tipiche definizioni di maschile e femminile.
4 Il cui orientamento è caratterizzato dall’assenza di attrazione verso qualunque genere.
5 Apertura a tutte le persone che non si identificano in queste categorie.
6 Per la concordanza grammaticale si usa la vocale indefinita schwa.
7 Reminder: una donna transgender, quando il sesso biologico di partenza è maschile; un uomo transgender, quando il sesso biologico di partenza è femminile.
8 Persona che intraprende una cura ormonale e/o si sottopone a un intervento chirurgico per assumere le caratteristiche fisiche dell’altro sesso.